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«A Jorginho dissi: “Ma quale Kakà? Tu devi fare il Pirlo. Se lo fai, prendi il suo posto in Nazionale”»

Il direttore tecnico della Pontremolese Mauro Bertacchini allenò il centrocampista della Nazionale in una scuola calcio in Brasile. Nel 2007 convinse il Ds del Verona Galli a portarlo in gialloblù, di lì la sua scalata. «Sono orgoglioso»

AULLA – Sguardo freddo, rincorsa lenta, un piccolo saltello e gli occhi fissi sul portiere. Il resto è tecnica: senza quella, un calcio di rigore del genere non lo tiri. La ricetta la insegna Jorge Luiz Frello Filho. Per tutti “Jorginho“,  l’uomo che ha deciso Italia-Spagna, il giocatore simbolo della rinascita della Nazionale targata Roberto Mancini. C’è un uomo, però, che continua a chiamarlo Jorge (“George”, per essere precisi, all’inglese). Lui è stato il primo a riconoscere le sue qualità, sul terreno di una scuola di calcio in Brasile, a Florianópolis: «Era un mostro. Lo chiamavamo Jorginho perché era piccolino. Aveva 14 anni e voleva fare il fantasista. Alla Kakà, per intenderci». Quell’uomo è Mauro Bertacchini, attuale direttore tecnico della Pontremolese. Alle sue spalle un curriculum di tutto rispetto, con esperienze in piazze importanti come Fiorentina, Bologna e Modena. Nel 2007 era il direttore sportivo del Castelnuovo Garfagnana, in Serie C2. All’epoca ricevette una chiamata dall’allora Ds del Verona, Giovanni Galli: «Mauro, molla tutto e vieni qui con me» gli disse. Lui rifiutò, ma fece all’amico una raccomandazione: «Prendi Jorghino: questo arriva in Nazionale».

Ma facciamo un passo indietro. Nel 2005 Bertacchini viene contattato dall’ex Ds e calciatore Mauro Gibellini, che gli propone di prendere parte a un progetto finanziato da Alessandro De Blasi per aprire una scuola calcio in Brasile, la “Brusque-Guabiruba”. «Mi disse che volevano un allenatore italiano che insegnasse ai ragazzi i primi rudimenti tattici del calcio moderno. Partii per il Brasile senza sapere una parola di portoghese. Viaggiavo con il vocabolario, quello “facile”, che avevo comprato all’aeroporto». A Florianópolis Bertacchini si trovò ad allenare 50 piccoli calciatori. Tra questi c’era anche un giovanissimo Jorginho. «Erano tutti ragazzi dalle grandi doti, del resto venivano dall'”ombelico del mondo calcistico”, quel punto del mondo tra Brasile e Argentina dove i ragazzi con le doti calcistiche ci nascono. E’ una qualità indigena, arricchita poi dagli immigrati europei».

Bertacchini rimase folgorato da Jorginho «Tecnicamente era un mostro, voleva fare il trequartista, ma non aveva il cambio di passo di un Kakà, o di un Messi. Gli dissi: “No, devi stare più indietro. Devi fare il Pirlo. Se fai il Pirlo, vedrai che prendi il posto di Pirlo in Nazionale”». Era il 2005-2006, quando nell’Italia di Lippi, a fare “il Pirlo” c’era Pirlo stesso.

Mauro Bertacchini i talenti li sa riconoscere, ma non sempre è riuscito a convincere. C’è chi è arrivato più in alto di lui, e non perché fosse più bravo. Sono quegli uomini di calcio che «probabilmente nei momenti cruciali della carriera hanno fatto i loro interessi». Lui, invece, è sempre stato uno stakanovista e un aziendalista. «Un giorno andai a vedere una partita di giovanissimi a Firenze con l’obiettivo di portare Bernardeschi con me alla Sir Rispoli di Genova, dove facevo il procuratore. Lì incontrai Pantaleo Corvino (attuale responsabile dell’area tecnica del Lecce, ndr). Mi chiese se non vedessi altri giocatori interessanti oltre a Bernardeschi. Gli risposi che quei brasiliani che vedeva in campo, nella scuola calcio di Alessandro De Blasi non sarebbero nemmeno venuti in prova. La prese male».

Corvino, dice Bertacchini, «era uno che navigava a vista, ma che in fondo otteneva quel che voleva». «A gente come De Blasi, invece, che ha investito su una qualità veramente alta, non è stato riconosciuto il lavoro. Noi proponevamo giocatori a tutti, ma nessuno ci dava retta. La verità è che se non hai qualche aggancio, se anche proponi giocatori di estrema qualità, non te li prendono in considerazione».

Jorginho rappresentò l’eccezione. A Verona con il Ds Galli trovarono l’accordo per 30mila euro. Due anni dopo lo vendettero al Napoli per 10 milioni. E infine al Chelsea, per 40 milioni. «Ecco, l’altro giorno, mentre guardavo la partita dell’Italia – confessa Bertacchini – pensavo a tutti quei personaggi di fronte a cui mi sono messo in ginocchio per far firmare un accordo del genere. Adesso capiranno che cosa si sono mangiati».

La semifinale con la Spagna, l’ex maestro di Jorginho, l’ha vissuta in tranquillità. «A volume zero, con in mano le bacchette con cui suono la batteria. E nemmeno durante i rigori ho avuto ansia. Tranne quando Jorge si è presentato sul dischetto. Ecco, in quel momento ho avuto le lacrime agli occhi. Mi sono messo a pregare, perché ho pensato: se sbaglia, da eroe diventa “quello che ha sbagliato il rigore”». Eppure, dal dischetto, Jorginho è sempre stato infallibile. «Non l’ho mai visto sbagliare. I rigori li ha sempre battuti così, anche in Brasile. E attenzione: serve davvero tanta tecnica. Da ragazzino mi raccontava che sua madre, ex calciatrice, lo portava in spiaggia e lo costringeva a palleggiare insieme a lei per insegnargli la tecnica. Non lo lasciava nemmeno giocare con i suoi amici. Probabilmente gran parte del merito fu anche suo».

Mentre parla del suo ex allievo, Bertacchini scorre la rubrica del telefono e mostra il suo numero. «Eccolo qua, anche se in realtà non lo sento spesso. Durante l’europeo gli ho mandato i complimenti su Facebook: “Orgoglioso di te”, gli ho scritto. Non mi ha risposto, ma sono convinto che è giusto così. In questo momento lui deve pensare a recuperare, e giocare bene la prossima». E mentre culla i ricordi di quella scommessa di cui adesso può vedere i frutti, l’attuale direttore tecnico della Pontremolese dà uno sguardo al futuro. «Qui a Pontremoli voglio proporre pari pari quello che ho sempre cercato di proporre ovunque sia andato, ovvero creare un gruppo di giovani su cui si possa seguire un percorso il più possibile personalizzato e mirato alla crescita del giocatore. Anche a discapito del risultato di squadra, ma in modo da avere una base per procedere, con il tempo, alla scalata delle categorie e al ricambio generazionale. Costruiamo i giocatori, e diamo un futuro alla società».