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L’Italia in ginocchio e si discute di calcio. È davvero una follia?

Ripartenza sì, ripartenza no. E' vivo il dibattito sul futuro dello sport più amato dagli italiani

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Ripartenza sì, ripartenza no. E’ vivo il dibattito sul sistema calcio in Italia, messo in stand by in questi mesi di emergenza Coronavirus, come del resto è accaduto a gran parte della macchina produttiva e sociale del Paese. Ma mentre pallavolo, basket, rugby e pallanuoto sono in procinto di fermarsi, il destino dello sport più amato dagli italiani è ancora incerto.

Si è discusso molto sull’insistenza dei vertici della Figc nel voler portare a termine il campionato di Serie A nonostante l’Italia (e il mondo) stiano affrontando quella che è stata definita “la più grossa crisi dai tempi dalla seconda guerra mondiale”. In fondo, anche quando tutto va male, in Italia basta trasmettere una partita di pallone e il popolo si consola. Ma intanto la gente muore, e le imprese piangono.

Allora, con che coraggio continuare a parlare di calcio? Una prima risposta potrebbe essere: con il coraggio di chi riconosce che di quella economia messa in ginocchio da questo mostro invisibile, il sistema calcio è una componente di assoluta importanza. Lo conferma il report “Il conto economico del calcio italiano”, presentato dalla Figc alla Camera dei Deputati nel 2018: una produzione complessiva di oltre 4 miliardi e un contributo per un 7% alla crescita del PIL, cui si aggiungono un aumento dei redditi di famiglie e imprese per un ammontare di 22,5 miliardi di euro e la garanzia di un’occupazione lavorativa (qualificata e non) a circa 250mila persone. Persone che vivono di calcio e grazie al calcio. Atleti, preparatori, dirigenti, sono soltanto alcuni pezzi del puzzle. Aggiungiamo operai, impiegati, giornalisti, medici, fisioterapisti, osservatori, procuratori. L’elenco è davvero lungo.

Ma non è solo questo il punto. Perché è vero che gran parte della produzione è da attribuire ai campionati maggiori, ma non esiste soltanto la Serie A. Quello è il calcio dei fuoriclasse, delle mega operazioni di mercato e degli stipendi a cifre stellari. Il calcio del fenomeno CR7 e dell’immortale Ibra. Lo stesso calcio contro il quale tanti si sono scagliati, negli ultimi mesi, per il trattamento “speciale” riservato agli atleti nella prima fase dell’emergenza sanitaria. Ma c’è anche chi, quel tipo di trattamento, non potrebbe mai permetterselo. Parliamo delle categorie professionistiche minori, Serie C in particolare e, sotto ancora, tutto il mondo dei dilettanti e quello giovanile. Man mano che si scende verso il basso, il calcio si depura di tutto ciò che lo rende ideale e si avvicina di più al reale. Chi sta al timone investe pur senza grandi prospettive di guadagno, chi corre in campo non pensa alla vacanza di lusso, ma a mandare avanti la propria famiglia. E’ il calcio che molti non vedono e non vivono ma che, probabilmente, in questi mesi sta soffrendo quanto il dipendente che attende la cassa integrazione o il piccolo commerciante che si interroga sul proprio futuro.

E ricordiamocelo quando, in un momento di paralisi economica e sociale, ci tappiamo le orecchie, quasi indignati, sentendo parlare di calcio. Che non solo è una enorme macchina produttiva per il nostro Paese, ma che soprattutto, è fatto di gente. Di lavoro e di passione. Di sudore nella fronte e di speranza. Quella di poter ricominciare. Non a giocare, ma a vivere.

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