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Serbia e Kosovo, lo scultore Zoran Grinberg: «I confini, una questione di anima»

L'artista nato a Parigi, cresciuto a Belgrado e radicato a Carrara. Era nella capitale francese, quando scoppia la guerra ma suo padre era rimasto in Serbia. E i primi effetti della guerra li osserva proprio su di lui: «La paura lo trasformò in un nazionalista radicale, lo spinse verso posizioni estreme, prima non era mai stato così»

CARRARA – Scolpisce volti, corpi, mani, intimamente legato al mondo reale, al figurato, alla realtà anche se filtrata attraverso i suoi occhi. Del resto il suo punto di vista è speciale, non solo perché artista, ma perché sono gli occhi di chi ha visto da lontano il suo popolo dilaniato dalla guerra e dall’odio, gli occhi di chi ha trascorso la vita lontano dal proprio paese per scelta e per amore, senza mai dimenticarlo. « Io mi sento anche serbo» inizia a raccontare e premette Zoran Grinberg scultore nato a Parigi, cresciuto a Belgrado e radicato a Carrara. Uno sguardo che gli ha permesso di percepire cosa significhi essere terra di confine, proprio oggi quando tutto, in Europa, sembra stia diventando una grande terra di confine e la guerra sembra incombere minacciosa. E’ di questi giorni infatti la notizia che tra i due paesi, Serbia e Kosovo, come si legge sui giornali, la tensione è nuovamente salita: le autorità del Kosovo avevano chiuso due valichi di confine con la Serbia, che non lo ha mai riconosciuto, per i blocchi stradali messi in atto da dimostranti serbi del Kosovo per protestare contro nuove leggi approvate dal governo su documenti di identità e targhe automobilistiche.

Zoran, di madre francese e di padre serbo, non abitava più a Belgrado da tempo quando il suo paese, la Jugoslavia si disgregò in un lago di sangue, in una guerra che Zoran, durante la nostra intervista, chiamerà più volte civile, tra fratelli, in un paese federale che improvvisamente diventò enorme terra di confine, dove le linee di frontiera si moltiplicarono e divennero segnate da lunghe scie di sangue. Era a Parigi Zoran, ma suo padre era rimasto in Serbia. E i primi effetti della guerra li osserva proprio su di lui, montenegrino di nascita ma serbo di fatto: «La paura lo trasformò in un nazionalista radicale, lo spinse verso posizioni estreme, prima non era mai stato così. Vedere i bombardamenti della Nato per lui fu scioccante, uno schock che seguì all’amarezza nel vedere il suo paese disgregarsi. Prima della guerra non mi ero mai posto la questione chi fosse croato, chi musulmano o chi serbo». Eppure qualcosa stava succedendo nei sotterranei della coscienza del paese, prima della guerra. Negli anni 80, a Zoran capita di fare un viaggio in treno attraverso i Balcani e di imbattersi in un confronto con un tizio, un altro viaggiaotore. Il discorso cade inevitabilmente sul Kosovo: «Prima o poi gli verrà riconosciuta l’indipendenza, è evidente» osserva Zoran, scatenando l’ira del suo interlocutore che arriverà ad accusarlo di non essere serbo. Ma allora questo odio da dove inizia a prendere forma?

«Le difficoltà con il Kosovo risalgono a prima della guerra civile, risalgono almeno agli anni 70 e furono all’origine della guerra civile, generarono loro la spinta della Slovenia a staccarsi dalla Federazione. Lì in Slovenia, il 98% della popolazione era slovena quindi non fu necessario alcun conflitto per ottenere l’indipendenza dalla Federazione. L’indipendenza slovena fu indolore. In Croazia, invece, più del 30% della popolazione era serba e quei cittadini non volevano diventare cittadini croati».

Una guerra e una disgregazione fomentate, come può accadere nelle migliori famiglie, da una crisi economica spaventosa: «La Jugoslavia versava in pessime condizioni economiche- continua a raccontare il viaggio dentro la coscienza del suo paese, Zoran – cambiava presidente ogni anno, era instabile, l’inflazione era al 2700% come nella Germania del 29: era il 1989 e costava più comperare la carta da parati che usare le banconote per tappezzare i muri. Quando andai in Kosovo, nell’88, là l’animosità era palpabile: chiedevo informazioni in serbo e molti mi voltavano le spalle. Anche prima esisteva quel sentimento antiserbo ma non lo avevo mai percepito. Mentre l’antico sentimento antialbanese in Serbia, quello lo avevo captato. Da ragazzo mi ero accorto di questo disprezzo verso il confinante popolo albanese».

Ma la soluzione nelle terre di confine, contese tra etnie diverse, significa spesso pulizia etnica ceh si concretizza con azioni tese a rimuovere forzatamente minoranze. «La prima volta che sento parlare di pulizia etnica e sento per la prima volta questa espressione – racconta Zoran guardandoci dritto negli occhi – è perché la trovo scritta in un testo politico accademico, sono delle dichiarazioni di accademici serbi che denunciano la politica antiserba portata avanti dagli albanesi in Kosovo, una politica di cui vennero poi accusati e con cui vennero bollati i serbi, quasi ne fossero stati loro i creatori». In Kosovo, i primi a fare pulizia etnica per cacciare e allontanare la minoranza negli anni successivi alla caduta del regime titino, sono dunque gli albanesi, ci racconta Zoran che inizia a spiegare cosa successe in quel lembo di terra prima che venissero tracciati i suoi confini geopolitici, collocata nel cuore dei Balcani, chiusa tra Serbia, Albania, Montenegro e Macedonia. «Agli inizi del 900 la popolazione serba e quella albanese era più o meno in sostanziale e pacifico equilibrio» racconta Zoran riferendosi all’andamento demografico di quella terra tormentata da continui interventi politici sui movimenti della popolazione, laddove nel periodo fra le due guerre mondiali il governo monarchico jugoslavo pretitino mise in atto un programma di ricolonizzazione del Kosovo col fine di alterare l’equilibrio demografico della regione in quel momento ancora a maggioranza albanese, attraverso l’insediamento di popolazione serba e l’allontanamento della popolazione albanese verso la Turchia, mentre con Tito assisteremo a una politica demografica in senso esattamente opposto, volta a incoraggiare la crescita della popolazione albanese.

Racconta Zoran: «Questo equilibrio di pace e tolleranza reciproca tra le due popolazioni esisteva ancora alla vigilia della II guerra mondiale. Nel 1949 però, quando in Albania chiusero i confini e iniziò la guerra fredda fra i due blocchi, ci fu un esodo in Kosovo della popolazione albanese. Fu allora che Tito mise in pratica una politica volta al mescolamento delle carte, al mescolamento dei nazionalismi perché aveva capito che il nazionalismo avrebbe potuto rappresentare un serio problema per la Federazione. La Serbia – racconta lo scultore – era la repubblica più popolosa e quindi potenzialmente poteva arrivare a dominare la Federazione, per questo Tito creò all’interno della Serbia due province autonome: Kosovo, dove abitavano serbi e albanesi e Voivodina, dove abitava assieme ai serbi, una minoranza composta da croati, ungheresi e rumeni».

Il racconto di Zoran non sconfina mai nell’odio o nel risentimento, né etnico, né politico. «Tito non mise mai in pratica alcuna deportazione – sottolinea e riconisoce lo scultore – come accadde invece in Unione Sovietica, ma era diventato il padrino del decimo figlio di ogni famiglia albanese: laddove la famiglia serba aveva due figli, la famiglia albanese veniva incoraggiata ad avere 10 figli. Era una politica mirata a cambiare gli equilibri demografici».

Calibra bene le parole Zoran, che sceglie con cura, lontane dagli echi di livore o acredine: «E’ una ferita ancora aperta, non sono mai cessati i problemi: in Kosovo la popolazione serba fa sabotaggio alle autorità e istituzioni kosovare, non pagano le utenze, hanno targhe serbe. I serbi non hanno mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, figlio della Nato».

Gli chiediamo la posizione della Serbia, in rapporto al conflitto tra Russia e Ucraina: «La Serbia ha condannato l’aggressione russa in Ucraina ed è candidata a entrare in Ue ma non vuole partecipare alle sanzioni inflitte alla Russia. Il governo serbo è in una posizione delicata» risponde con la stessa pacatezza.

Prima di salutarci gli chiediamo quale possa essere secondo lui che ha avuto un punto di osservazione, seppur doloroso, privilegiato nell’analizzare quanto accaduto in Kosovo, e gli chiediamo perché quando i confini sono decisi dal potere si rompono equilibri e si scatenano conflitti: «Non c’è nessuna ricetta- risponde – sarà come con Israele, durerà 150 anni in pace relativa: il 99% dei serbi considera il Kosovo serbo. Non è una questione amministrativa ma di anima. Ci sarà sempre una terra di confine, chi può dire cosa segna il confine? La lingua? La religione? Le popolazioni e le frontiere si muoveranno sempre per evitare guerre e carestie».