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Covid, parla l’anestesista rianimatore del Noa: «In 35 anni di attività mai vissuto niente di simile. Adesso occhio all’inverno»

Claudio Falchi ha assistito i malati covid nel reparto di terapia subintensiva dell’ospedale delle Apuane: «Ne arrivavano anche 20-25 al giorno. Eravamo al limite della saturazione». Virus mutato? «Possibile. Ma non ci sono certezze»

CARRARA – Il Coronavirus non se n’è mai andato. È arrivato e ha stravolto le vite di tutti, in tutto il mondo. Si è portato via vite umane, ha sconvolto famiglie e distrutto certezze. Ha messo in discussione la gerarchia dei diritti umani, facendo persino dubitare che il più importante, il diritto alla vita, andasse tutelato in ogni modo e con qualsiasi mezzo, anche arrivando a sacrificare tutti gli altri. E tutto questo, lo ha fatto nel giro di qualche mese. Poi, con l’arrivo dell’estate, si è nascosto dietro le quinte. Ma non se n’è mai andato. E negli ultimi giorni, un’intensa attività di testing in tutta Italia sta rilevando un nuovo aumento dei contagi. I numeri salgono e a molti fanno paura. Paura di tornare “punto e a capo”. Ma c’è anche chi, in tutti questi mesi, si è rifiutato di riconoscere la tragicità di quanto accaduto: scettici, negazionisti, complottisti. La comunità che ruota attorno al Coronavirus è varia. Di certo, inconfutabile, innegabile, c’è però quanto accaduto negli ospedali. Immagini che raccontano una sola verità: che il virus non è un’invenzione. Di tutto questo abbiamo parlato con il medico anestesista rianimatore del Noa Claudio Falchi. Lui, come tanti altri colleghi, ha vissuto in prima linea i tragici mesi dell’emergenza sanitaria.

Dottore, ci racconti che esperienza è stata.

Sono quasi 35 anni quasi che faccio questo lavoro e ne ho viste davvero “di cotte e di crude”, ma posso garantire che nella mia esperienza, non ho mai assistito a casi così gravi e così numerosi. Mai. Lo possono confermare anche i miei colleghi, che come me ne hanno viste tante. A un certo punto, ricordo, ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: “se andiamo avanti così, non reggeremo l’impatto”.

Eppure qualcuno continua a chiamarla “banale influenza”…

Per rispondere basta guardare i numeri, che sono inconfutabili: parlano e descrivono una situazione davvero grave. Poi c’è l’esperienza, che ci dice che è successo qualcosa di anomalo. Perché polmoniti del genere, situazioni di insufficienza respiratoria così gravi nel momento della tac, si vedono forse 10 o 15 volte nell’arco di un anno. E sono causate non solo da infezioni, ma anche da traumi, annegamenti, avvelenamenti. Il Covid invece ne faceva arrivare 20-25 al giorno. Nel periodo del picco siamo arrivati quasi al limite della saturazione delle macchine. A questo proposito voglio ringraziare gli industriali del marmo, che ci hanno donato ecografi polmonari e macchine molto costose, e la cittadinanza in generale per la fornitura di materiale vario, tra cui mascherine e tute.

In che modo assistevate questi pazienti?

Dobbiamo fare una distinzione. I casi gravi che necessitavano di assistenza ventilatoria ma non ancora di un trattamento estremamente aggressivo venivano portati in terapia subintensiva, quelli veramente critici che richiedevano intubazione, invece, in terapia intensiva. Nella subintensiva, dove lavoro, abbiamo messo in atto tutte le metodiche di trattamento, quindi ventilazione con maschere e attraverso macchine, ma senza intubare. Il problema è che spesso il paziente si fa prendere da attacchi di panico. Si pensi agli scafandri, che danno l’impressione di stare dentro a un’acquario dal rumore assordante. Ma tutto questo ha permesso a molti di non arrivare allo stadio dell’intubazione, dove il paziente è sedato ma assolutamente dipendente dalle macchine.

Avete messo in atto praticamente ogni tecnica allo stato dell’arte. E per quanto riguarda i farmaci?

Questi all’inizio erano un problema. Non avevamo farmaci che davano garanzia di efficacia, seguivamo principalmente le indicazioni dell’Oms. Molto efficace poi è stato l’utilizzo della Calciparina, un anti-coagulante. La malattia infatti non era una malattia del polmone di per sé, ma dei capillari. Avevamo infatti casi di trombosi agli arti e trombosi cerebrali dovuti proprio a questo stato di ipercoagulazione. Allora utilizzavamo Calciparina ad alti dosaggi, e questo, nonostante non fosse la soluzione definitiva al problema, ci ha aiutato molto.

E’ vero che le prime autopsie che hanno svelato la vera natura della malattia, da cui poi è partito l’utilizzo degli anti-coagulanti, sono state fatte in ritardo?

Non direi che sono state fatte in ritardo. La malattia ha avuto una curva di crescita molto strana. Da quello che mi risulta, i primi casi di polmoniti “strane” sono arrivati a dicembre nei vari pronto soccorso d’Italia. Inizialmente sono state classificate come influenze, ma con sintomi più gravi del solito. E questo non ha allarmato a tal punto da portare a fare autopsie, che si sono rese però necessarie in un secondo momento, con l’esplosione vera e propria della malattia intorno a fine febbraio.

Malattia che ha causato decessi su decessi in Italia. A proposito di questo, conferma la tesi secondo la quale il Covid è fatale soltanto per anziani con gravi patologie pregresse?

Basandomi sulla mia esperienza posso dire che sì, in quel periodo il virus colpiva prevalentemente anziani e persone con altre patologie. Tant’è che è nato il dibattito sulle cosiddette “Morti con covid”, quelle morti la cui causa dichiarata era il virus ma che in realtà avvenivano per altre patologie. Questo è vero, si trattava prevalentemente di persone malate, ma alle quali il virus ha contribuito ad aggravare ulteriormente il quadro clinico, anticipando il momento della morte.

A un certo punto, in piena emergenza, il Noa è stato dichiarato “Ospedale Covid”. Cosa ha comportato questa conversione?

Tengo innanzitutto a sottolineare, perché la popolazione locale deve averne coscienza, che il nostro ospedale si è comportato veramente bene dal punto di vista organizzativo. E’ un ospedale nuovo, modulare, che può trasformarsi a seconda delle esigenze e che, per l’emergenza che stavamo vivendo, è stato chiuso per quanto riguarda tutta l’attività routinaria, a parte le emergenze indifferibili. La nostra rianimazione è stata destinata interamente ai malati Covid e all’ultimo piano è stato creato un reparto di subintensiva. Inoltre, essendo “ospedale Covid”, ciò che non era Covid e non estremamente urgente veniva portato in altri ospedali. Tutto questo ha portato a un ritardo, che tutt’ora stiamo cercando di smaltire, di quella che è stata l’attività routinaria. Ma ribadisco, il nostro ospedale si è dimostrato veramente all’altezza dal punto di vista tecnico.

Vi siete mai trovati in carenza di personale?

Quello del personale era senza dubbio un problema, perché il malato Covid va seguito h24 e la sua assistenza richiede un impegno enorme. Noi abbiamo avuto la fortuna di poter contare su molti infermieri, quasi tutti giovani e neolaureati, arrivati senza o con poca esperienza, che, devo dire, ci hanno dato una risposta meravigliosa. Si sono immediatamente attivati cercando di apprendere le metodiche nuove ed entrando in una mentalità tutta nuova, quella del malato critico. Con tutta la fatica fisica e mentale che comporta una situazione del genere. I nostri ragazzi sono stati encomiabili, e questo è un altro punto a favore del nostro ospedale.

In che momento è arrivata la svolta, con la diminuzione delle entrate in terapia intensiva?

Senza dubbio con il lockdown, quello totale. Un dramma dal punto di vista economico e sociale, ma assolutamente necessario. Infatti già dopo 7-10 giorni, subito abbiamo iniziato a respirare, a vivere la discesa, notando una diminuzione dei casi gravi, fino ad arrivare, col passare delle settimane, quasi allo zero.

A Massa-Carrara ci sono stati più casi gravi, e di conseguenza più decessi, rispetto alla media toscana. Come lo spiega?

A noi ha dato una grossa botta la Lunigiana, dove è scoppiato il primo focolaio. Lì un musicista, qualche giorno dopo essere tornato da Codogno, ha iniziato ad avere tosse e febbre e si è recato al pronto soccorso di Pontremoli, dove nessuno inizialmente era a conoscenza della vicenda. Quando poi il tampone è risultato positivo, hanno dovuto addirittura chiudere l’ospedale per procedere alla sanificazione. Quindi all’inizio una grossa parte di pazienti veniva proprio dai vari comuni della Lunigiana, e si trattava perlopiù di persone anziane.

Che situazione sta vivendo adesso la nostra provincia?

Il dato numerico ha un suo significato e ci dice che il virus c’è, e non è mai sparito. E’ vero che nel periodo estivo può aver perso virulenza ed essere diventato meno aggressivo. E’ possibile, perché non abbiamo di certo i malati gravi che abbiamo avuto in primavera. Ma cosa succederà quando tornerà il freddo nessuno lo può sapere. Nell’ultimo periodo abbiamo ricominciato ad avere alcuni casi critici che sono stati mandati all’ospedale di Lucca, che l’Asl ha nominato per il momento “ospedale Covid”. Abbiamo qualche paziente “non grave” al Noa, ma per fortuna parliamo ancora di pochi casi.

E’ possibile che in questi mesi il virus sia mutato?

Il virus era già mutato in precedenza, tant’è che si parla di ceppo asiatico e ceppo europeo. E probabilmente continua a mutare, perché, come tutti i virus, è soggetto alle mutazioni di Rna di cui è composto. Detto questo, non possiamo sapere con certezza cosa succederà. Può anche darsi che con l’inverno si riattivi la componente più virulenta. Al momento non possiamo prevederlo.

Cosa ne pensa dello scontro Zangrillo-Crisanti? Il primo con la sua teoria secondo la quale “Il coronavirus è clinicamente morto”, il secondo che invita ad estrema prudenza e a un’intensa attività di testing, con 300-400 mila tamponi al giorno…

Quell’affermazione di Zangrillo, noi anestesisti l’abbiamo presa con ironia. La sua teoria è stata oggetto di critiche e la comunità scientifica, giustamente, non l’ha presa bene. Personalmente credo l’abbia detta grossa. Bisogna stare attenti a quel che si dice, la popolazione ha bisogno di rendersi conto di ciò che sta accadendo. Stiamo vivendo una pandemia: questa parola ha un significato enorme. Il piano di Crisanti? Ha una sua logica: testare tutti per avere un numero attendibile di positivi. Nell’ultimo periodo il numero di test è cresciuto in maniera importante, durante l’emergenza questo non era possibile. Allora i casi rilevati erano solo la punta dell’iceberg: un maggior numero di tamponi avrebbe rivelato qualcosa di diverso. Perciò Crisanti ha ragione, il problema è che il suo piano richiede costi enormi. Soltanto la Corea ha fatto qualcosa di simile, mentre il resto d’Europa ancora non ci è arrivato. In questo senso, il governo dovrà fare delle scelte importanti.