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Focolaio covid, parla la responsabile della casa famiglia: «I nostri ospiti sono stati contagiati in Italia. Il neonato è negativo»

Sara Vatteroni che gestisce Casa Betania: «I covidpositivi stanno tutti bene e sono asintomatici. E se il cluster si sviluppasse in una scuola?»

CARRARA – Forse non tutti ricordano che il Covid-19 inizialmente era chiamato “virus cinese”. Che le persone di origine asiatica venivano allontanate o trattate in malo modo, fino ad essere vittime di veri e propri atti di violenza, per via dei loro tratti somatici e di uno stigma che le indicava come portatrici di malattie. E, forse, non tutti sanno che alla fine proprio la comunità cinese che risiede in Italia è risultata essere la meno colpita dal virus (in Toscana delle 8.017 persone trovate positive a fine aprile solo una risultava essere di origine cinese).
Ogni tanto, però, è importante fare un esercizio di memoria. Anche solo per prendere coscienza del fatto che un certo modo di immaginare il virus, e la sua trasmissione, ha provocato, e può ancora provocare, un danno sociale forte, e in alcuni casi anche un danno economico non da poco: in provincia molti negozi e ristoranti gestiti da cinesi sono stati chiusi prima dell’inizio del lockdown perché completamente vuoti.
Oggi quegli stessi negozi sono tornati a riempirsi, eppure basta una notizia per scatenare nuovamente un dibattito che rasenta il razzismo e che contribuisce solo a fare confusione sulla diffusione dell’epidemia. È il caso della vicenda dei 21 ospiti covidpositivi del centro d’accoglienza Casa Betania.

Lo diciamo subito: che le persone siano risultate positive al virus e che siano di origine nigeriana, non significa che il virus lo abbiamo portato dalla Nigeria attraversando il mare a bordo di un barcone entrato illegalmente in Italia (e magari gestito da Ong che fanno profitti). No. Gli ospiti del centro di accoglienza risiedono nel nostro paese da due anni. È evidente, dunque, che il virus lo abbiano preso qua. Ed è altresì evidente che nei luoghi di aggregazione, così come in quelli di lavoro, ci sia un’alta probabilità di contagiarsi a vicenda. Se il contagio coinvolge persone che non ne manifestano i sintomi, tutto succede silenziosamente. Questo non significa che i gestori del centro d’accoglienza abbiano contribuito a diffondere il virus: “Non siamo persone improvvisate. Ho lavorato in scenari molto più complessi di questo: in centro America, in Kosovo. Ritrovarmi additata in questo modo non è stata una cosa simpatica. Una riflessione però vorrei che la facessero tutti: oggi succede a me, domani, se si dovesse trovare un focolaio in una scuola, si punterebbe il dito contro un’insegnante o una preside?”.

Signora Vatteroni, siete riusciti a capire dove sono stati contagiati i 21 ospiti?
Bè, di certo hanno preso il virus in Italia, visto che da due anni risiedono sul territorio. Come sia avvenuto il contagio al momento non è dato sapersi. Certo è che il virus è tra noi, non a caso l’obbligo della mascherina vi è per tutti: italiani e nigeriani.

Dall’inizio della pandemia, come avete gestito il centro d’accoglienza?
Abbiamo fornito tutte le informazioni sulle normative anticovid ai mediatori culturali, che a loro volta le hanno tradotte agli ospiti. Nel centro ci sono dispenser di igienizzanti e abbiamo distribuito mascherine.

Oggi come stanno gli ospiti del centro?
Sono tutti in buona salute, sono asintomatici. Il bambino che è nato ieri è Covid negativo, al contrario della madre che è positiva. Siccome i conviventi sono in una struttura comune chiaramente il tampone è stato fatto a tutti gli ospiti della struttura, poi a coloro che negli ultimi sette giorni sono entrati in contatto con loro. Questo tipo di valutazione viene fatta a cerchi concentrici, si parte dalle ultime persone con cui sono entrate in contatto per poi passare alle persone con cui sono entrate in contatto queste ultime e così via.

Arrivano critiche da tutte le parti in merito alla gestione del centro, cosa ne pensa?
Non siamo persone improvvisate. Ho lavorato in scenari molto più complessi di questo: in centro America, in Kosovo. Ritrovarmi additata in questo modo non è stata una cosa simpatica. Ma una riflessione vorrei che la facessero tutti: oggi succede a me, domani, se si dovesse trovare un focolaio in una scuola, si punterebbe il dito contro un’insegnante o una preside?